Eliana Petrizzi è una pittrice e scrittrice. E’ nata ad Avellino nel 1972. La sua prima mostra nel 1995, conquista l’attenzione della critica con opere su tavola di scuola rinascimentale, la tecnica di gusto fiammingo e una pittura dal sapore surreale. Dal carattere surreale, le sue composizioni riscuotono interesse per l’impronta psicoanalitica, una costante nella sua pittura.  E’ presente in prestigiose collezioni pubbliche e private, Di lei hanno scritto nomi illustri della critica internazionale. Ricerca pittorica è scrittura sono da sempre le sue passioni. Tra le sue pubblicazioni si ricordano: Mala-mente (Grafic Way, 1997); Scritture private (2001); Eruzioni di ordinaria misantropia (2009); Sotto l’albero che qui mi ha piantata (2010); Edificanti macerie (2015), La vita spiata (Magenes Editoriale, 2015). Suoi scritti sono stati pubblicati su Altofragile, Nazione Indiana, Zibaldoni e altre meraviglie, Nuova Prosa (60/61).

 

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four hands  scritto a quattro mani

MG Il più delle volte è un’atmosfera inquieta, che sfuma nelle tonalità del sogno e della visone, con un senso della distanza immensurabile, atavica, ma forse anche indispensabile tra l’uomo e le cose della terra, che inumidisce l’espressione del volti, con una luce degli occhi, liscia e densa, inaccessibile. 

Via col tempo, nella pittura hai inseguito una grandezza interiore, inquieta e pudica, che non si lascia svelare e che il tuo sorriso continua a nascondere. 

Dipingere e vivere sono sempre state una identica cosa. La vita trascinata nello spazio della tela. Vivere e dipingere con un identico respiro. L’euritmia, quel confine che si stabilisce, se pur fragile, fra il corpo dell’artista -la sua mano- e il corpo dell’opera.  

Un respiro, però, a tratti inquieto, che agita le atmosfere come preludi di morte, di una luce -richiamando Platone- che sopravviene dal di dentro e s’urta con quella che s’abbatte dal di fuori”. 

Quell’orizzonte, una lama nello spazio della tua pittura, che sembra venirci a dire che per imparare a vivere dobbiamo prima imparare a morire, come teorizzato anche da Heidegger, come primo passo per comprenderne l’essenza. 

Quel dopo che presenti allo sguardo di chi sosta davanti ad una tua opera, e si interroga su quel senso di finitudine, di abbandono del corpo fisico, per abitarne uno nuovo. Ma solo per chi ha fede. 

EP Sì, nei miei quadri il volto si astrae dal corpo, a ricordare una parte intangibile dalla mediocrità terrena e dall’abbandono, malgrado il segno della lacerazione congenita all’essere al mondo.

Ecco così aprirsi lo spazio di una ferita, vanitas dell’immagine, rottura, mancanza, ad insegnare che solo dall’inciampo è possibile immaginare una forma di riscatto e di trascendenza. La ferita è amica dell’inganno, racconto pittorico di tutti gli inganni attraverso l’illusione suprema: quella di disconoscere o di allontanare dalle nostre vite il dolore.

Non si tratta semplicemente di un discorso intorno alla morte come scomparsa del corpo, ma delle differenti declinazioni che della morte incontriamo ogni giorno da vivi: l’esistenza che non abbiamo scelto, l’attracco senza porto delle parole, l’amore spento, la paura che toglie la speranza.

Il paesaggio naturale che spesso affianca le mie visioni, suggerisce di accettare e amare la nostra fragilità. Una costante ricerca di sfocatura e scioglimento è il mio obiettivo da anni.

Inseguo di fatto una figurazione che contenga uno spaesamento impercettibile, una distonia, una parola intraducibile. La pittura deve far scomparire la realtà, truccando al tempo stesso la sua sparizione. Dietro ogni immagine, qualcosa si perde sempre nell’atto in cui viene fermata. La mia è in fondo una pittura che dell’immagine insegue la nostalgia, lontana da ogni possibile approdo.

Cerco di raccontare un percorso mentale della visione, in un processo di allontanamento dall’oggetto reale. In questa direzione narrativa, più grande è la distanza che separa dal modello, più forte è la tensione emotiva interna dell’opera. Ma solo per chi ha fede. 

MG Terzani, in suo scritto, riprendendo un pensiero asiatico, annotava che la morte sia un inzio, come a dire, conta solo ciò che vi è dietro questo sipario della vita e conta, come vi si è giunti innanzi a questo palcoscenico. Esattamente come innanzi ad ogni tua opera, dove ogni involucro, ogni corpo si dissolve nello spazio della scena, nel mondo. Una essenza di ciò che resta della vita, che la tua pittura riesce ad estrarre come un profumo, quasi fossi ossessionata dal quotidiano pensiero di crearne un’essenza. Ma il profumo, come la pittura Eliana è sorella del respiro. Un effluvio, talmente fine che ogni tua opera suscita nella memoria  la persistenza di un’immagine. 

Quel percorso mentale della visione che resta come residuo dello sguardo, in quelle infinitesimali prospettive che si allungano verso una luce, indecifrabile, fra profili di luoghi e di volti che si succedono nella scena come quinte.

E tutta li l’esperienza della pittura. In quella luce essenza, sull’interpretazione di quel dopo, di quell’oltre, in quel bagliore che acceca, che dissolve ogni residua forma in una sorta di misterioso profumo. Un aldilà, forse una vita dopo. Chissà. La reincarnazione di qualcosa o del nulla. In ogni caso, solo nella consapevolezza della nostra, certa, finitudine.  

EP La morte: non è forse ogni racconto per immagini un modo per scongiurarla, per allontanarla dalla nostra consapevolezza di finire? In tutte le mie opere, l’immagine è il calco del corpo che resta nel vuoto di una giacca appesa. Nelle nature morte barocche che guardavo da bambina, sono sempre rimasta affascinata da forme che, seppure colte in un momento di rigoglio, erano di fatto il ritratto di un cadavere truccato nella bara aperta. Mi colpivano in particolar modo i pochi dettagli che lasciavano intendere cosa stavo guardando esattamente: la mela bacata, il bruco morto accanto al vaso, la foglia secca caduta da un ramo, il bordo marcio che orlava un petalo. Mi è parso chiaro da subito che ogni evocazione della bellezza reca di fatto una tara. Sorpresa dal sospetto di non esistere, ogni immagine dipinta è il punto in cui l’orologio fermo segna l’ora esatta. Niente in fondo le somiglia, e in questo si riconosce. Il silenzio di ogni cosa che passando non resta trova in essa il suo centro. Per la pittura di ogni mia figura e di ogni mio paesaggio, io devo ringraziare sempre la paura di scomparire, maestra di misura; i tratti ciechi delle interruzioni, il tono perentorio delle incertezze, la banalità che ha deposto sempre a favore delle cose, la pena struggente per le ombre del corpo.

Quando la morte entra nella vita non è un vento che passa, un tanfo che esce, un tuono che smette. Basta però fare un passo oltre per capire che due cose distinte non sono separate, e che niente di più lontano dal buio descrive la scomparsa di ciò che abbiamo perduto. E ben venga il dolore, perché a me pare che solo dopo la devastazione le giornate si riempiono di un vento che trasforma con gioia la forma dei cieli, lo sguardo degli animali, le chiome degli alberi, le mani degli uomini. Dipingere è esattamente questo: capire che ogni cosa – dall’immagine dipinta a colui che la dipinge fino a chi la riceve – trova sempre nella sua fine il proprio ricominciare.

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