Renata Petti, napoletana, architetto, nella ricerca di una dimensione “altra”, poeta e artigiano, progettista dentro le cose, ha sperimentato interventi su varî materiali di cui il privilegiato è quello che chiama la madre argilla. La sua ricerca orientata a sperimentare sui vari linguaggi dell’arte dall’architettura alla video art attraverso la pittura, la scultura, l’installazione, la performance, recentemente è volta alla ricerca di nuovi stimoli fotografici mai sperimentati. 

Vive e lavora a Napoli dove ha insegnato Discipline architettoniche presso il Liceo Artistico. 

Ha partecipato a numerose mostre in Italia e all’estero sia singolarmente che con il duo artistico LALOBA AnnaCrescenzi&RenataPetti (nato nel 2001) con cui ha attivato numerosi laboratori per la costruzione di oggetti teatrali, sculture e oggetti per performances. Ha realizzato installazioni, azioni, scenografie cinematografiche, partendo dalla suggestione di luoghi, usi e tradizioni, testi letterari.

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http://www.renatapetti.it

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Il profondo è la pelle

MG Non tanto come e quando usciremo da questo distanziamento sociale, ma piuttosto quanto più fragili e compromessa sarà la città e la sua umanità, in quel sistema di relazioni e connessioni sociali, che il progetto urbano, fin qui, nella sua articolazione di spazio e luoghi ci è parso solido e sicuro. 

Anche la Reggia di Caserta, osservata in questi giorni di quarantena, avvolta in un surreale vuoto, pareva venir meno al suo carattere di perpetua consistenza, offrendo nel nulla che la circondava, la metafora di una frattura insanabile venutasi a creare con quel luogo in cui Carlo di Borbone la volle per le potenzialità espresse dalla natura che l’avrebbe circondata, se non, addirittura, protetta. 

Una vulnerabilità dell’urbe e del paesaggio, tutto compreso che apre scenari sul futuro delle città e su un’idea di contemporaneità del vivere e dell’abitare i luoghi di difficile interpretazione. Viviamo un passaggio traumatico di una generazione non più abituata alla stanzialità, incline più al non luogo, a ritrovarsi nei frenetici ritmi da transfert, on the road fra le città. Un modello di flessibilità dell’abitare che supera la fissa dimora. 

Tutto ciò si è ribaltato d’un colpo solo con un fattore psicologico pesantissimo indotto da questo isolamento forzato
Una temporaneità, dovrà forza maggiore cedere ad una ritrovata stanzialità, con un senso di perennità che produrrà una immobilità e tutto ciò si sembrerà, la fine, oppure una ritrovata via. Ma quale?. 

Tanto sembra aver guidato il senso dei tuoi ultimi lavori che si muovono sul versante della fotografia ma anche nelle istallazioni interattive con l’uso della tecnologia che appare più umanizzata nelle tue opere.
In entrambi i linguaggi interviene un processo di smaterializzazione della forma, rendendo tutto più fluido, sensoriale, astratto. Si avverte il rischio di scoprire che, in fondo, siamo stati, si più veloci tecnologici, – anche da fermi – ma ci scopriamo più fragili già compromessi. 

Metafora di questo paradosso, sono le tue valigie ad uncinetto – di una recente mostra – e di questi giorni, anche gli scatti fotografici pubblicati sui social. Fotografia di un disagio che si avverte fra le mura domestiche. Quel silenzio che si è infiltrato, prima carezzandoci poi inquietandoci, fra un pensiero e l’altro in questa quarantena. 

Anche all’obbiettivo della tua macchina fotografica smette di andare a fuoco, su quel disastro di cui noi siamo artefici, al cuore fra uomo e natura. Fra il mondo dentro di noi e lo spazio intorno a noi. Le ultime immagini sono la metafora di un disordine emotivo, uno squilibrio che a te non è sfuggito, riproposto nel tuo lavoro di artista che sa testimoniare il suo tempo. Complice, il tuo osservare il mondo con gli occhi di architetto, che il mondo dovrebbe costruire. 

RP Ci mancano i corpi. I corpi sono diventati inaccessibili, anche nell’incontro, in cui soprattutto noi occidentali abitanti del Mediterraneo entriamo con la stretta di mano nella sfera di un altro corpo, ci viene negata la corporeità. Il profondo è la pelle. Pelle che nel contatto ci restituisce calore emozioni sensibilità: Il tatto, il più primitivo dei sensi, che per i greci amplificava tutti gli altri sensi. Ma corpo è anche il nostro ambiente. Sono corpo le nostre città. Tutto è corpo.

Annamaria Ortese in Corpo Celeste recita: “vivere non significa consumare. Il corpo umano non è un luogo di privilegi. Tutto è corpo e ogni corpo deve assolvere un dovere se non vuole essere nullificato, deve avere una finalità che si manifesta nell’obbedienza alle grandi leggi del respiro personale e del respiro di tutti gli altri esseri viventi e queste leggi che sono la solidarietà con tutta la vita vivente non possono essere trascurate.”

C’era ricerca del corpo quando, dopo la laurea in architettura, ho iniziato le mie esperienze artistiche utilizzando l’argilla ma sempre spinta da esigenze di plasmare, trasformare, sperimentare.

In un catalogo Eduardo Alamaro: “Il lavoro di Renata Petti è contrassegnato da forme energiche, massicce, intransigenti: ella sottopone le forme primordiali a imprevisti squilibri. In queste plastiche modellate con gusto tattile da una mano delicata, resta indelebile la sommarietà di una finitezza che prevede, come in un giallo che si rispetti, la traccia, l’indizio di un polpastrello, “il segno delle mie mani” ella precisa. Continua poi. “In queste plastiche c’è il mio corpo, il desiderio di toccare; mi espongo con i miei oggetti, con le mie cose. È toccare una parte di me: la terra, come il mio corpo, registra e reagisce, è materiale vivo che vedo plasmato, crescere lieto, dilatarsi…rompersi”

E ancora: “Privilegiare la sostanza delle cose, lo spessore, se si vuole la carne che ricopre un corpo è il senso del mio lavoro che indaga il passaggio sottilissimo tra superficie e sostanza, tra apparire e sparire, tra dentro e fuori.”

Oggi il corpo manca e per questo i miei lavori fotografici autoritratti sfocati e a lunga esposizione esprimono mancanza, negazione, il corpo ritorna nella privazione quasi come un fantasma e a volte si dissolve perdendo perfino i suoi connotati di corpo, a volte si sdoppia quasi a voler ritrovare nell’altro sé una relazione con il sé materiale, il sé spirituale, il sé sociale.

L’arte è vissuta come la possibilità di vivere la diversità senza imbastardimenti né mediazioni, come occhio dilatato sul mondo, sulle problematiche dell’uomo e su quelle ambientali transitando in territori diversi e contaminando i linguaggi dell’arte nella ricerca di una dimensione “altra”, poeta e artigiano, progettista dentro le cose.  La spinta di conoscere e di scoprire altri universi possibili mi ha portato a studiare i linguaggi multimediali che potevano interagire con il mio lavoro. In questa ottica si inserisce uno degli ultimi miei lavori, una installazione interattiva multisensoriale site specific Intimacy che ho realizzato con Rino Petrozziello. Il visitatore entrando in una sala buia attiva sonorità, scie luminose e il movimento di quattro valigie fatte ad uncinetto che rilevandone la presenza si aprono e chiudono lentamente, quasi bocche che emettono flebili suoni e parole sussurrate, favorendo il rapporto con sé stessi. Le valigie, dunque, sembrano interpellarci, e chiedono di riempirle con quanto non vogliamo vada perduto. Con la parte di sé che lo spettatore preserva e che va sottratto alla dimenticanza e alla dispersione.

MG E’ indubbio che sia questo un momento storico e che occorra immaginare una diversa innovazione tecnologica ma anche filosofica, in cui l’artista possa intervenire nei cambiamenti con un ruolo di maggiore centralità nella vita di una comunità. Avverto l’impressione che vi sia stato nel corso degli anni una poca incisività dell’arte, un calo di tensione sociale. Artisti più in corsa sul tempo che a decifrare il proprio tempo, ora nelle sue evidenti sregolatezze. E’ venuta meno una spia, un appiglio, anche solo immaginario che potesse orientarci. Ci ritroviamo ad essere come i ciechi di Brügel, che ha ispirato Abituarsi, un tuo lavoro digitale di qualche tempo fa, che torna ad essere, drammaticamente attuale. 

RP L’arte è una visione del mondo, si fonde e confonde con la vita e la voce degli artisti è fondamentale perché narra il presente e indaga sull’ esistenza, sul disagio e sull’angoscia del come è il mondo. Viviamo una realtà dove tutto è metafora e tutto è scambio ma il reale del mondo ci sfugge continuamente. Il mio mediometraggio Inferno blu (struttura diacronica e rimando al Medioevo), viaggio in luoghi ‘infernali’ ispirato alla “parabola dei ciechi” di Brügel e alle figurazioni di J. Bosch, indaga sulla nostra cecità e voci fuori campo ripetono ossessivamente la parola future. Anche nel video Abituarsi che mette in scena quattro movimenti in cui personaggi ciechi, personaggi del passato e contemporanei cercano una dimensione di luce da una condizione di tenebre, la ripetizione ossessiva di abituarsi mette a fuoco la nostra cecità, dimensione del vedere attraverso le tenebre ed oltre esse (e per questo tremendamente attuale). 

MG Riguardando il tuo lavoro mi viene da pensare che serva ricucire un rapporto con la natura tornando a costruire con la terra. Rammendare un tessuto infrangilo nel suo complesso. Una fragilità che ha una duplice radice, sia organica che psico-spiritale. Prendo a prestito un tuo ultimo scatto proposto sui social. Ritrae foglie d’arancio poggiate su uno specchio. In quell’ovale che non mente mai, dovremmo provare a guardaci tutti, per una presa di coscienza che rifletta gli eccessi di un materialismo. Un materialismo sfrenato che ha deformato l’anima e l’immagine del pianeta. In questo mondo virtuale che distorce la realtà, virale – che poi nel nostro tempo significa buono – a te riesce nell’impresa di raccontare il mondo in una goccia d’acqua. Un microcosmo che tu racconti attraverso un ben altro specchio: lo schermo di uno smartphone. Lo specchio più deforme della realtà.

RP  Fragilità nell’ambiente, negli altri e in noi stessi. Uomo natura ambiente città sono organi diversi di uno stesso corpo. La natura ci nutre, è la nostra vita ma non sempre viene protetta dall’uomo e solo oggi ci rendiamo conto, con l’emergenza del coronavirus, che la natura è casa nostra e che la nostra vita e tutto l’ ambiente si stanno modificando. La mia esperienza artistica è in un continuo divenire. I miei fuori scala fotografici, quasi bozzetti da rielaborare per installazioni multimediali, mettono a fuoco oggetti del nostro quotidiano, elementi della natura in relazione con altri oggetti.  Nelle foglie d’arancio che si specchiano si evince la bellezza. In esse si identifica l’intera pianta. Bisogna sfruttare l’esperienza di questo periodo per affrontare il futuro e per far fronte all’emergenza climatica. L’esperienza trascende il tempo, avvicina agli altri e crea relazioni, tende a superare la transitorietà, i desideri relativi al piccolo io in una comunione con l’alterità. E appare un altro mondo in cui il cielo il bosco la goccia la foglia o l’altro uomo appaiono in modo diverso. L’esperienza ci manda lontano, rompe le nostre abitudini e le nostre consuetudini. Qualcosa si sfasa, è una specie di shock. Viaggiando in una dimensione fuori dal tempo ed entrando nel presente del presente diventa possibile entrare in uno stato diverso in cui la realtà appare come è e si capiscono tante cose. Nelle ultime installazioni cerco di mettere a fuoco i processi di automazione delle tecnologie digitali in cui gli algoritmi canalizzano completamente i nostri comportamenti sociali riducendoci a degli automi. Essi ci dicono cosa ascoltare cosa vedere cosa comprare indirizzando il nostro gusto e le nostre esigenze e mediando i nostri scambi con gli altri e con gli oggetti del mondo. Attraverso lo smartphone l’automazione determina completamente la nostra vita quotidiana.

L’esperienza che io e Rino Petrozziello abbiamo proposto nella nostra installazione sensoriale interattiva SUBMERGE è stata una immersione sull’acqua-vita e acqua-morte che travolge per i cambiamenti climatici. Un organismo marino con tanti tentacoli come una medusa fatto ad uncinetto e poi resinato, l’acqua in movimento che raccoglie pulviscoli di polvere, 2 smartphone che riproducono in loop 2 video: Nel primo una goccia di acqua al microscopio nel suo formarsi ed espandersi e nell’altro un’acqua che distrugge. 

Nell’era dell’amnesia umana sfruttando la tecnologia e le possibilità di interazione elettronica (la interattività prevede la pausa, l’interruzione, l’entrare e uscire dalla installazione nella continuità che l’esperienza emozionale svolge nel tempo interiore del  fruitore) si riporta l’attenzione sulla fisicità del fatto a mano e resinato, sui cambiamenti climatici ma anche sulla coscienza di essere corpo collettivo e sulla importanza di essere attori attenti e responsabili del nostro futuro

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