four hands  scritto a quattro mani

MG

L’andare a fondo è sempre un’impresa scomoda, di più se il temperamento è quello sferzante che non lascia scampo alle opere di rappresentare la realtà, quando risulterebbe più agile accomodarsi in quello spazio del pensiero fra il detto e non detto, il sottaciuto e il sott’inteso.

Al nome di Gloria Pastore, risponde una delle donne più graffianti dell’arte contemporanea, napoletana, di quelle personalità che attraverso il lavoro duro d’artista, le cose non le manda cerro a dire. 

Napoli è la città che meglio ti si addice, sapendone interpretare quell’espressione vera della  femminilità, come altre napoletane, che si sono occupate, tenacemente, di bellezza e di crescita intellettuale. 

Senza alcun sotterfugio credo sia giunto il tempo di recuperare quel senso di naturale bellezza della vita, demistificandola dalle trappole moderne e quel tempo è adesso. 

L’immagine di una corsa spietata al mito della bellezza ad ogni costo di noi occidentali – che la bellezza poi la distruggiamo – era già in Plastick Women, resa perfetta nella posa felina con la schiena inarcata come corda di violino. 

Un’immagine di bellezza impareggiabile, dall’anatomia impossibile, in quel corpo che poteva essere solo di resina sintetica, dal colore bianchissimo che tanto faceva impallidire il più naturale bianco dei marmi delle sculture al Mann. Un inganno, per tua stessa ammissione. 

Questo tuo lavoro porta a dirci delle nostre paure, la ripetute maschera che occultano il nostro essere mostrando il volto che non siamo, per compiacere alla prima avvisaglia di disinteresse. Sono  maschere di volti sconosciuti finanche, alla nostra stessa personalità.

Avvertiamo ogni cedimento fisico come un’urgenza. Un campanello d’allarme, ed invece è la bellezza della vita che scorre come le stagioni per la natura – che pure quella distruggiamo quotidianamente – tanto da rendere le nostre giornate, un inferno dalla nascita, qualcosa di più spaventoso, di quello che poi, realmente è.   

GP Guardare, percepire, permette  di leggere i segni oltre che i simboli. ”Vedere” ciò che si guarda ci dà la possibilità di cogliere l’essenza formale e  il conseguente significato verticale di ciò che si vede, cioè comprendere la genesi  e il mondo dei significati che essi trasmettono: una presa di coscienza del mondo esterno.

Il reale che ha stimolato i nostri sensi sviluppa una coscienza critica sulle ragioni di quel reale che osserviamo.

L’imprinting iniziale è sicuramente una dimensione orizzontale, superficiale. Ma se si indaga con uno sguardo più approfondito si crea una dimensione di percezione verticale, che stimolando le corde del sentire, coinvolge l’immaginario condizione necessaria per restituire all’opera nel suo inevitabile mistero, la verità di quel reale. La sua essenza. 

Parlando dell’installazione dell’opera Psiche e altre storie al Museo Archeologico di Napoli, indagando sulla dimensione e sulla sfera femminile, non pretendo e, tantomeno, propongo di dare soluzioni  o risposte, semplicemente pongo una questione attuale tra la differenza di portata che transita fra il vedere cose del mondo per quello che sono, e accettarlo per tale, ed il guardarlo, che comporta una riflessione, un giudizio, un pensiero, che assume una riflessione di merito rispetto alla sua eventualità.

Guardare, comporta anche percepire le diversità e le molteplicità dei tempi e degli spazi dell’essere umano. Fare conti con i diversi “noi stessi” per  tentare una possibilità di relazione, di dialogo.

In questo sentimento ho sviluppato una trilogia sul femminile un triplice sguardo, una riflessione verticale.

La testa scultura della psiche ispirata alla splendida scultura ospitata  al museo Archeologico, svela l’identità profonda del femminile, che partendo dalla storia del passato, ovvero dalle radici, volge il suo enigmatico sguardo lontano, oltre il visibile, oltre il tempo. 

Archetipo di bellezza e di eros. Duplicata trentasei volte, portano sulla sua testa inclinata e senza la dimensione del cervello, tutto ciò che il pensiero immaginativo femminile produce.

MG Come un chirurgo, hai operato una craniectomia. Un taglio inclinato fra la dura madre e la membrana aracnoidea, sulle trenta teste della statua di Psiche, dove si celano desideri allucinatori che hanno preso il sopravvento nella realtà con effetti devastanti sulla nostra personalità. 

Eppure, il desiderio risiede nella giusta misura, che i Greci conoscevano sapendosi mortali e che noi abbiamo rimosso, sulla via delle scelte estreme in ricerca di qualcosa di immortale che non si addice al genere umano che per sua natura è mortale. 

Non tanto la propensione al desiderio che ci possa rendere felici mi pare il punto critico, piuttosto i diversi stadi che l’anima deve attraversare per raggiungere la piena consapevolezza di sé. 

La modalità estrema con cui realizziamo il desiderio e ancor più noi stessi, nella mancata accettazione di ciò che siamo che avviene con un progressivo smantellamento di coscienza e intelletto. Funzioni che risiedono in quello spazio fisico del cranio che tu hai voluto sezionare, guardandovi all’interno come in un vaso di Pandora. Vi hai trovato una varietà di simboli che affollano la mente, ognuno dei quali, rilancia desideri, peripezie, sollecitazioni esterne. Questi eccessi risiedono nell’ovale di volti delle trenta teste della giovane Psiche, tanto integrati perfettamente nella fisiognomica, a tal punto, da precostituire per ogni effige un volto di misteriose personalità.

GP Allegorie della natura come coralli e conchiglie, la memoria, l’amore, il dolore, l’origine, lo stupore e la leggerezza, la creazione, il donare, la fantasia e tanto altro ancora.

Elementi evocativi che alludono nelle trentasei teste, temi di appartenenza alla storia e realtà della dimensione femminile e alla sua capacità di relazionarsi con il tempo. L’altro sguardo rivolto al Femminile è nelle donne nella  scienza la cui forza creativa, sempre in difficoltà nella loro storia, ha spinto l’umanità a migliorare se stessa nel tempo ed oltre.

Immense varianti di speculazione tra gli estremi, infiniti orizzonti di bellezza.

Tutto ciò che è fermo è mutevole cosi nella meravigliosa estetica della plastic woman che sulla traccia dell’artificio rinnega inevitabilmente se stessa, come un inganno ci pone davanti ad uno sguardo dove scopri l’inutile spinta all’imitazione, suggerita ancora una volta, davanti al tradimento di una vera identità supportata dall’inganno del consenso, di chi non assume il senso di bellezza, come valore autentico e assoluto della propria identità.

Ma un uovo di struzzo vero e urlante, posta al centro delle sue gambe urla la magnificenza del femminile al grande valore della procreazione, e sottintende l’intoccabile senso e valore della creatività. Un riscatto ancora una volta dalla forza femminile accettando sulla finzione del suo corpo ingannevole la natura di cui essa stessa è composta inevitabilmente.

Coralli, uccelli, animali, foglie conchiglie, riscattano il suo essere donna. Anche qui domina nonostante tutto la forza della sua natura primaria. Tutto è mosso dall’archetipo della bellezza che ha in se l’eros, che affascina seduce e trasforma, desiderio di trasgressione ed inquietudine, forza propulsiva di vita che mette spesso insieme gli opposti, talvolta stridenti nella dimensione del simbolo e non quella del sintomo.                                                                                                                      

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